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Confisca di prevenzione allargata e frode fiscale: profili di criticità della normativa

La riflessione sul tema prende spunto da una recente sentenza della Corte di Cassazione (Sez. 5, n. 32461, del 15/05/2019 – dep. 19/07/2019). Il Supremo Collegio ha ritenuto legittimo quanto disposto dalla Corte d’Appello meneghina, con riguardo all’applicazione di una misura di prevenzione patrimoniale nei confronti di un soggetto che si riteneva vivesse abitualmente con i proventi di attività delittuosa. In particolare da quelli derivanti dalla pluriennale attività di frode fiscale posta in essere dal ‘94 al 2014 attraverso un collaudato sistema fraudolento, alla cui base erano previsti una serie di rapporti cartolari tra società consortili e cooperative, consistenti sostanzialmente in false fatturazioni, o comunque per operazioni inesistenti, che garantivano un certo risparmio di imposta, oltre a fuoriuscite patrimoniali dalle casse delle società in favore di ulteriori persone giuridiche di dubbia esistenza ovvero orbitanti nel circuito del proposto e della sua famiglia.

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La responsabilità del liquidatore per omesso versamento di ritenute certificate e IVA

Con la sentenza n. 17727 decisa il 13/03/2019 e depositata in data 29/04/2019, la terza sezione penale della Suprema Corte di Cassazione ha ribadito il principio per cui, il liquidatore di società risponde dei delitti di omesso versamento (di ritenute certificate o di I.V.A.), non per il mero fatto del mancato pagamento – con le attività di liquidazione – delle imposte dovute per il periodo della liquidazione medesima e per quelle anteriorima solo qualora distragga l’attivo della società in liquidazione dal fine di pagamento delle imposte e lo destini a scopi differenti. Inoltre, la Corte chiarisce nuovamente che tali conclusioni sono imposte dalle limitazioni che l’art. 36 del d.p.r. 602 del 1973 fissa alla responsabilità in proprio del liquidatore, che sussiste solo qualora egli non provi di aver soddisfatto i crediti tributari anteriormente all’assegnazione di beni ai soci e ai creditori, ovvero, di aver soddisfatto crediti di ordine superiore a quelli tributari.

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Bancarotta: illegittimità costituzionale delle pene accessorie in misura fissa.

La Corte Costituzionale – con la sentenza n. 222/2018 depositata il 5 dicembre 2018 – ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 216, ultimo comma, della c.d. Legge Fallimentare, il Regio Decreto n. 267 del 16 marzo 1942, nella parte in cui disponeva l’automatismo applicativo della pena accessoria di 10 anni di inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale ovvero di incapacità, per la stessa durata, ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, così modificandolo: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa  fino a dieci anni».

Tale pronuncia è intervenuta incidenter tantum – a seguito di ordinanza di rimessione della prima sezione penale della Corte di Cassazione – nel giudizio di legittimità per la cassazione della sentenza della Corte di Appello di Bologna che, in qualità di giudice del rinvio, aveva condannato alcuni protagonisti del c.d. Crack Parmalat, per aver commesso vari delitti di bancarotta di cui agli artt. 216 e 223 L.F.

In particolare, la portata innovativa della decisione della Corte delle leggi consiste nell’aver ribadito che, alla luce della funzione special-preventiva e dunque rieducativa della pena, il quadro edittale deve necessariamente essere informato al principio di proporzionalità costituzionale, di guisa che l’automatismo applicativo del trattamento accessorio risulta, in tal senso, irragionevole, necessitandosi un proporzionato sacrificio di interessi per il reo perché possa rieducarsi.

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L’autoriciclaggio – aspetti critici della disciplina alla luce di una recente pronuncia della Cassazione

Il principio di diritto, sancito dalla seconda Sezione penale della Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 17235 del 18 aprile 2018, delinea in maniera definitiva le responsabilità dei soggetti che partecipano all’attività di riciclaggio reinvestendo in attività produttive i proventi di un delitto commesso 20 anni prima della condotta riciclatoria.

Chiarisce la Corte, infatti, che il professionista che contribuisce a ripulire il denaro derivante dal delitto commesso in maniera esclusiva da un altro soggetto, non risponde con questi del meno grave reato di autoriciclaggio, altresì commette il più grave delitto di riciclaggio.

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